Nota dell’editore
Schiacciato dall’italiano, il vernacolo si sta estinguendo. Ma il vernacolo è una ricchezza culturale. Al momento dell’unificazione politica dell’Italia, la lingua italiana era scritta solo da una piccola minoranza della popolazione; per fare gli italiani era necessario creare una lingua comune. Socio-politicamente è dunque comprensibile perché l’istruzi˝˝one obbligatoria sia stata progettata esclusivamente in lingua italiana standard, come pure la televisione. Ma da qui è nata l’idea che il dialetto e il vernacolo siano la lingua degli ignoranti e che sia bene perderli. In realtà non è così. Il linguista Tullio De Mauro, in un suo studio, afferma che essi giocano un ruolo positivo e mostra che i ragazzi che parlano costantemente e solo italiano hanno punteggi meno brillanti dei ragazzi che hanno anche qualche rapporto con la realtà dialettale. Perdere il dialetto è perdere una ricchezza culturale.
Rinaldi nei suoi appunti osserva: salvare un dialetto non vuol dire compiere una campagna archeologica o mummificare una lingua, ma vuol dire ricuperare una tradizione. Per sua natura il vernacolo non è una lingua scritta; mancano testi che possano attrarre l’attenzione delle giovani generazioni e contribuiscano a mantenerlo vivo. Potrebbe anche costituire un’utile testimonianza, in futuro, del vernacolo di Mirabello nella seconda decade del ventunesimo secolo. Per molti motivi, mi è parso che il testo più adatto fosse una traduzione de Il Piccolo Principe e, ritenendo che fosse un compito del Museo, ho proposto a Giorgio Bianchi l’arduo compito. Gli sono molto grato di aver accettato
Il Piccolo Principe fu pubblicato nel 1943, prima in inglese e poi in francese; da subito fu un’opera ‘incomparabile’, soprattutto per l’uso delle allegorie e dei messaggi, al quale il mondo dell’epoca, sconvolto dalla guerra, non era certo abituato. Oggi, con circa 400 traduzioni, è l’opera con maggior numero di traduzioni al mondo; solo la Bibbia e il Corano ne hanno un numero superiore.
Documentandomi per scrivere questa nota, ho scoperto, confesso con sorpresa e piacere, che la stessa scelta è stata fatta da molti. Le traduzioni nelle lingue locali e nei dialetti e vernacoli italiani sono iniziate nel 2000, con il napoletano, seguito dal milanese (2002), dal bolognese (2003) e dal ladino (2004). Dopo il 2014, quando il testo e i disegni sono divenuti legalmente di pubblico dominio (passati settanta anni dalla pubblicazione i diritti d’autore cessano) il numero di traduzioni è rapidamente cresciuto. A oggi ne ho contate 31 e non sono certo di averle individuate tutte. È certamente un segno, che fa ben sperare, della crescente attenzione alla conservazione delle lingue locali.
L’incipit de Il Piccolo Principe (l’aviatore in panne) e l’ambiente (il deserto) non sono parti di fantasia ma si rifanno a un drammatico episodio della vita di Saint Exupéry: nel 1935, mentre trasvolava il deserto libico nel raid aereo Parigi-Saigon, si smarrì nelle nubi, urtò il suolo e sfasciò l’aereo. Lui e il suo compagno uscirono incolumi dall’incidente, ma non sapevano dove si trovassero. Partirono in una marcia senza speranza, in una direzione scelta a caso. Nel 1939, nel capitolo VII di Terra degli uomini, il libro che gli diede fama mondiale, Saint Exupéry racconta quanto avvenne durante quei quattro giorni di marcia, le voci, le allucinazioni, l’incontro con la piccola volpe, la contemplazione delle stelle e le sue riflessioni. Il Piccolo Principe, pubblicato quattro anni più tardi, è la continuazione di quelle riflessioni. La lettura di quel capitolo e il primo paragrafo del successivo (che trovate nella prossima pagina) mi sembra siano di grande aiuto per cogliere il messaggio profondo de Il Piccolo Principe, un libro all’apparenza per bambini, ma in realtà destinato a coloro che vedono con il cuore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi. Anche Gesù diceva: se non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli.