Gli scariolanti

Sono gli scariolanti che hanno fatto questo paese: dal XV secolo alla metà del XX, dunque per più di 500 anni, alzarono argini, scavarono canali, colmarono paludi con le loro cariole. Dobbiamo esser loro grati e ricordarci di loro. È questo il compito affidato a questa pagina.

Gli scariolanti erano braccianti che trasportavano la terra per mezzo delle loro carriole durante i lavori di bonifica, gli ultimi lavorarono negli anni ’40 nei territori del Reno e del canale di Burana, mentre nei secoli precedenti erano attivi in tutto il Ducato di Ferrara. In quell’epoca, ogni anno in primavera, sino a 30.000 scariolanti si recavano ogni giorno al lavoro.
Lo scariolante era tenuto a portare la sua vanga e la sua cariola. Doveva portarla con se, trainandola dietro la bicicletta o tenendola sopra la testa. Veniva pagato alla fine della giornata ma solo se l’aveva conclusa. Per questo si portava dietro, sempre!, la ruota di scorta … della carriola.

Gli scariolanti erano arruolati a ogni inizio settimana: alla mezzanotte della domenica suonava un corno, chi voleva avere il lavoro doveva mettersi in cammino verso gli argini, dove avveniva l’arruolamento. I primi che arrivavano erano certi di essere presi, ma i ritardatari rischiavano, perché, una volta raggiunto il numero di scariolanti richiesto, gli altri erano respinti e dovevano attendere tutta la settimana per tentare di nuovo. Da questa forma di chiamata nacque il noto canto A mezzanotte in punto (se voleste ascoltarlo lo trovate qui). Il canto nacque in italiano e non in dialetto. La ragione è che le grandi opere della costruzioni degli argini e dello scavo dei canali richiamavano masse enormi di contadini poveri, non solo dal Ferrarese, ma anche dal Veneto, dalla bassa Lombardia, dalle Marche, e i dialetti erano diversi.

Riferisce Alfiero Gualtieri, che era stato scariolante, nel 1966: La carriola era un mezzo indispensabile per il lavoro. Ogni scariolante ne aveva una, di sua proprietà, preziosa quasi come le sue braccia. Partiva da casa alla mattina con la carriola al traino, legata alla bicicletta. Qualcuno la portava rovesciata in testa, con la parte posteriore appoggiata alla schiena, e pedalava così [da La terra e l’acqua di Maurizio Garuti, Minerva Edizioni].

Nei preziosi appunti di Franco Rinaldi, che Franco Carletti ha donato al Museo, ho trovato queste notizie, da lui raccolte nel 1980 a Mirabello, sulle modalità di lavoro degli scariolanti di Terre del Reno che negli anni ’40 del secolo scorso avevano lavorato ad innalzare gli argini del Reno.

“Si diceva: Andear in Ren a cariola a fear i carzeant
L’orario di lavoro era dalle 5 alle 12, verso le sette si faceva una mezzora di riposo per la colazione. Ogni squadra lavorava tre quarti d’ora, poi faceva un quarto d’ora di ad caplin (riposo). Chi non manteneva il ritmo e perdeva una o più razead, cioè un giro di cariola, le doveva ricuperare durante ad caplin. Il lavoro durava due o tre mesi ogni anno.
S. Agostino e San Carlo fornivano 2 squadre ciascuno, Mirabello 2 o 3.  Ogni squadra era composta di 20/30 operai e a ogni squadra veniva assegnata una cheava (un tratto del letto del fiume) di 50 metri circa. Una delle squadre era addetta al rifornimento dell’acqua e partecipava al pari delle altre alla divisione finale degli utili.
Cap rudin era il termine usato per denotare chi stabiliva il ritmo di lavoro della squadra; di solito un veterano forte e robusto, che doveva essere anche bravo nel farsi assegnare la cheava meno dura.
Il lavoro, a cottimo, veniva pagato in ragione dei metri cubi di terra posti sull’argine e pressati.”

Non conoscendo il dialetto, ho inviato ieri sera una mail a Fabio Garuti chiedendogli la cortesia di spiegarmi il significato di carzeant e di rudin, che non capivo ma mi incuriosivano. La sua bellissima risposta merita di essere riportata qui integralmente.

“Buona sera,
ecco qualcosa che non conosco, poichè i miei nonni sono sempre stati storicamente contadini e non braccianti.

Ho però formulato l’ipotesi seguente, mutuata dal verbo “carzèer”, cioè “carreggiare”. 

In dialetto “carèzza” (lo pronunci non con la zeta di carezzare, ma quella di zucca) significa “carreggia”, ovvero “vai per la tua strada, prendi la tua via e allontanati”, soprattutto nel significato, oggi bonario ma pur sempre un po’ scocciato, di “levati dai piedi, levati di torno, va avanti, datti una mossa, ecc”. Ora le “carreggiate” sono appunto i solchi lasciati dai carri lungo le strade e le cavedagne. Similmente anche le carriole, che avevano le ruote ferrate, lasciavano solchi sui sentieri di lavoro degli argini; inoltre, era un lavoro ripetitivo che implicava l’andare e tornare avanti e indietro, lungo lo stesso percorso, con ritmo possibilmente costante come in tutti i lavori a catena. Se dunque, per stanchezza o pigrizia, il bracciante avanti a me si fosse attardato a riempire la propria carriola, probabilmente lo avrei apostrofato, appunto, dicendogli: “Dai, dàt ‘na mòsa, carèzza”, cioè: “Dai, datti una mossa e riparti per la tua strada”. Sottointeso: sfaticato che non sei altro. Perchè i giri persi si sarebbero poi dovuti recuperare (anche per ripartire equamente non solo il lavoro, ma anche la fatica … e la paga). Ecco perchè lo avrei richiamato: per evitare io stesso lavoro doppio il turno successivo, a causa di un suo ritardo (motivo della scocciatura, probabilmente non sempre bonaria all’epoca).

Questo verbo in effetti è abbastanza comune nel nostro dialetto (io stesso infatti lo conosco anche senza aver avuto scarriolanti in famiglia), segno che il bracciantato scarriolante ha lasciato comunque un segno nella nostra comunità.

Al carzeant”, letteralmente “colui che carreggia”, secondo me rappresenta quindi l’operaio che lavora ripetitivamente con la carriola, vuoi perchè ribatte sempre il medesimo sentiero tracciando solchi, vuoi per estensione perchè deve “levarsi di torno” se non vuol essere d’impiccio a chi lo segue.

In sostanza, così interpretato, è proprio un sinonimo di scarriolante, anzi: probabilmente ne è il corrispettivo dialettale.

Spero, nel tentativo di chiarire, di non aver fatto più confusione.

Una nota anche sul Cap rudin. 

Ancora adesso in dialetto con la parola rudìn (ruotino) si vuole indicare una squadra di lavoro affiatata, che si intende con poche parole e poche chiacchiere. Par fèar di bòn salàam a n’àgh vòl brìsa dimòndi zèant, àgh vòl al rudìn giùst”. Per fare dei buoni salami non ci vuole molta gente, ci vuole il ruotino giusto. Questo perchè, oggi più di un tempo, quando si macella il maiale tutti improvvisamente sono pieni di buona volontà … e generalmente sempre tra i piedi (io stesso quel giorno sono abbastanza scorbutico e non amo troppa gente per casa, preferirei che carreggiasse…) poichè pochi sanno quel che c’è da fare e come … mentre tutti ambiscono alla scorpacciata finale di ciccioli, coppa e, nelle famiglie più fortunate, maccheroni col ragù a fine giornata.

E d’altronde, anche in italiano, un motore che funziona bene è stato rodato.

Per concludere si potrebbe proprio dire che tutto, in questo caso, deriva dalla ruota, che in effetti se non è ben tonda non funziona bene, e dunque non è adatta ad essere montata su un carro, o sui mozzi della carriola, lasciando i solchi di cui sopra …

Anzi, dalla lettera “r“, la lettera di ciò che ritorna su se stesso …  ma qui sconfiniamo forse nella linguistica più poetica.

Dottore, non mi chieda di parole … E’ come invitare un’oca a bere!

Cordialmente, Fabio”

Come afferma il Piccolo Principe: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. Grazie Fabio!

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