Franco Rinaldi

IMG_20140806_0001San Simone 1961 – Franco Rinaldi (a sinistra) e Sandro Merli (a destra) alla mostra di Guaraldi

L’amicizia come la libertà, come la carità, è un sentimento che non tollera aggettivi: libertà condizionata è semi-libertà, non ancora libertà; carità condizionata è una contraddizione in termini: la carità c’è o non c’è, e l’amicizia condizionata, parziale, sa di ricatto: non è accettabile.

Tuttavia la mia amicizia è facilona nel senso che si concede facile e tende a farmi credere vero, quello che vero non è; questo porta a qualche inevitabile delusione o a dare per scontato quanto, invece, scontato non è.

Me ne rendo conto solo adesso (meglio tardi che mai!) che ho deciso di dare risposta alle amabilissime pressioni che Rodolfo Soncini-Sessa, da tempo mi rivolge affinché io che  – dice lui –  l’ho conosciuto bene (anzi meglio di tutti) scriva finalmente di Franco Rinaldi.

Sarà perché, per una sorta di patologia positiva, vorrei condividere col mondo intero le mie idee e le mie visioni nel campo dell’arte che, degli amici, mi pare di sapere tutto quanto è indispensabile. Dò insomma per scontato, quanto appunto scontato non è.

E mi accorgo che di Franco Rinaldi, l’Amico, non so tutto. Non conosco per esempio, l’esatto corso dei suoi studi di formazione: sì, il ginnasio, il liceo, la maturità artistica perseguita (privatamente?) alla scuola di Quinto Ghermandi, il maestro che Franco ricorderà con gratitudine e di cui conserverà i disegni, gli schizzi didattici e di correzione “rubati” durante le lezioni.

Conosco gli incontri di quella scuola coi coetanei Luciano de Vita, anconetano e Lucio Saffaro, triestino, entrambi grandi artisti prematuramente scomparsi.

Quando Franco parlava di Luciano de Vita (pittore, scultore, scenografo, incisore), del suo straordinario “modo” di partire da un piccolo disegno che poi s’allargava e si espandeva come una pala d’altare, il suo volto di ragazzetto di buona famiglia (allora non portava la barba marxiana; quella risaliva ai primi anni ’70 e serviva a conferire autorevolezza al suo ruolo di educatore) si illuminava. Quando poi ricordava Lucio Saffaro, fisico laureato, votato all’arte per metafisica inclinazione, forse l’ultimo pittore, teorico, poeta-filosofo che derivi da Piero della Francesca, da Franco amatissimo (come del resto, e ci tengo, da me), per lui era l’estasi. Un’apoteosi.

Fu lui, Franco, a farmi incontrare Saffaro da Forni nel 1972, presentato da Arcangeli.

Nell’università, la facoltà d’architettura a Firenze, Franco ebbe l’altro straordinario incontro che  segnò la sua vita:  conobbe il maestro del razionalismo architettonico italiano, Adalberto Libera.

Franco non terminò gli studi universitari, perché sentiva urgente la volontà di insegnare storia dell’arte alle giovani menti che si aprono alla vita. Scelse d’insegnare, e lo fece per il resto della sua vita, nei licei e nelle scuole Magistrali di Ferrara, Bologna e Forlì. Del resto, l’esempio del docente vocato, Franco l’aveva in famiglia: suo padre Antonio, pittore e restauratore, insegnò a lungo all’Istituto Gualandi di Bologna, nel quale ebbe la cattedra che fu di Alessandro Guardassoni, buon pittore ottocentesco, anch’egli amatissimo dal mio amico. Il padre gli insegnò anche l’etica del lavoro, lo ricordava Franco stesso. Quando Antonio ragazzino, allievo del toscano Cassioli, assisteva il maestro nella prestigiosa decorazione del Santuario di San Luca a Bologna, c’era molta invidia nell’ambiente artistico bolognese e, assente il Cassioli, Antonio andava alla chiesa per ascoltare, appartato, le opinioni dei “maestri” invidiosi. C’era chi sosteneva che quelle figurazioni perfette, non potevano essere state effettuate ad affresco, ma a secco, a tempera. Antonio, allora preso un secchio d’acqua lo scaraventò sulle pitture e l’acqua colò pulita senza asportare il colore, dimostrando come questo fosse bene incorporato nel supporto, nell’intonaco, nell’affresco appunto. Si potrebbe dire, vista la generale intransigenza di Franco che buon sangue non mente.

A Mirabello dove fu arciprete il letterato Giovanni Pranzini (amico fraterno di Antonio Rinaldi), erano presenti, prima del terremoto, due vetrate del Cassioli e alcuni quadri dello stesso Rinaldi.

Nel ruolo di insegnante, Franco Rinaldi ebbe modo di mettersi in luce tanto da essere “prestato” alla formazione dei docenti stessi, ruolo che gli consentì di incontrare uomini e studiosi del calibro di Emmer, Marcolli, Arcangeli ed Emiliani.

Insegnante dell’Istituto Laura Bassi di Bologna, collega e amico di Norma Mascellani, nota e generosa pittrice, conobbe Carlo Bione che fu poi coinvolto nella vicenda che riguarda Mirabello e la sua storia.

Come sia nata la ricerca che ha portato al museo di Palazzo Sessa/Aldrovandi, non ha nulla di premeditato, ne di trascendentale: Franco Rinaldi trascorreva le sue estati a Mirabello; l’estate era lunga e bisognava inventarsi il modo di renderla piacevole. Ciò rende ancor più bella e felice l’avventura del museo, nato con la leggerezza delle cose veramente grandi.

Franco Rinaldi era nato nell’anno del “grande gelo” (1929), gelo atmosferico, gelo economico. Di questo gelo non era rimasta traccia; in lui tutto era caldo, partecipato, schietto e rigoroso. Fin troppo! Ci scherzavamo su quando assieme progettammo e realizzammo alcuni arredamenti, qualche mobile, e vincemmo il concorso bandito dall’EFER (Ente Ferrarese Esposizioni Rassegne) per un oggetto-ricordo ferrarese. E per oltre dieci anni, mi aiutò ad allestire le mostre dello Studiomerli (grafica e incisioni).

Nel 1982 ci fu l’avventurosa storia di Jeung Kai Hung, l’artista cinese che facemmo venire da Pechino, che non coinvolse solo me in particolare, o Franco, ma il Comune stesso, la cittadinanza tutta. Però questa è una storia che racconteremo in altra occasione. Promesso.

Verso la fine del secolo, le visite di Franco a Mirabello, si fecero più rare. Pensai ad una depressione senile, sempre possibile, poi si scoprì la malattia: il Parkinson.

Non sapendo nulla di lui da tempo, gli telefonai un giorno per dirgli che gli avrei mandato il mio primo libretto sull’incisione, frutto, anche, delle nostre conversazioni e che quindi un poco gli apparteneva. Mi rispose, sollecitato dalla moglie Teresa, e mi chiese di non cercarlo più. Era lontano, la voce flebile. Lo riferii agli amici e tutti ne restammo feriti.

Passato qualche anno, nel 2007 o giù di lì, una domenica il telefono squillò. Risposi:

<<Sono Franco>>

<<Franco…>>. <<Franco?! Beh…>>

<<Venitemi a trovare>>.

Corsi subito ad avvertire gli amici.

L’andammo a trovare e restammo con lui per l’intero pomeriggio. Aveva recuperato il suo passato, almeno apparentemente, ma Teresa ci avvertì che non dovevamo farci illusioni. Congedandoci mi disse di tornare da solo, perché aveva bisogno di me. Lo feci. Mi chiedeva di aiutarlo a valutare le cose d’arte che aveva collezionato lui, e prima di lui, suo padre, in previsione di una doverosa equa trasmissione ai figli. Facemmo gli scongiuri sforzandoci di apparire spiritosi.

E fu sempre di domenica, maledetta domenica mattina, verso l’autunno 2008 mi pare, che il telefono squillò…

15 luglio 2014

Sandro Merli

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