Pannello 16 – L’Impresa di Pompeo Aldrovandi
L’idea di monsignor Aldrovandi, allora non ancora Cardinale (lo diverrà solo nel 1734), era semplice: costruire una chiavica nell’argine del Reno; cioè un’opera in muratura dotata di paratoie, tramite la quale derivare le acque del fiume in un canale (trovate lo schema nel disegno al numero 2). Quando la portata del fiume fosse stata medio-bassa, cioè in condizioni di morbida, queste avrebbero alimentato un mulino, mentre durante le piene sarebbero state usate per sommergere i terreni, così che le torbide (il materiale alluvionale trasportato dalle acque in piena), depositandosi, ne innalzassero il livello. Questa tecnica, detta colmata, non era certo nuova: da secoli era praticata per la bonifica delle basse valli emiliane-romagnole e illustri matematici l’avevano fatta oggetto di studi proprio in quegli anni. Tra gli altri ricordiamo Domenico Guglielmini, Primo Matematico dello Studio di Bologna (l’Università), che, proprio a Bologna, aveva pubblicato nel 1697 un trattato sull’argomento, che vedete al numero 1. L’Aldrovandi l’avrà forse letto.
Per realizzare la chiavica Pompeo chiese, come prevedeva la legge, autorizzazione all’Assunteria delle Acque, ma la proposta incontrò forti opposizioni da parte dei confinanti. Essi temevano, a ragione, che le acque scolanti dai terreni inondati dalla chiavica avrebbero innalzato il livello delle paludi, che avrebbero così invaso le loro terre, con gravi danni e senza possibilità di futuri vantaggi per loro.
Abbiamo già riferito al pannello precedente che, per evitare che i vicini si opponessero alla realizzazione della Chiavica, Pompeo suggeriva di: pigliare in affitto beni e valli vicine … e [così] non sentiremo reclami. … Il Viaggi [il vecchio fattore dei Bonelli] tratti sotto mano li suddetti affitti per non comparire Noi.
Al termine di quella stessa relazione, Pompeo afferra la penna e ci rivela i suoi segreti pensieri. Potrebbe opporsi anche il Pubblico [cioè lo Stato], ma … mi lusingo ch’essendo il Sig. Conte Filippo decano dell’Assunteria d’acque possa trovare modo di acquetare ogni sussurro, o mossa che fosse per farsi, aiutandosi con li suoi e miei amici. Certo dopo la sommersione bisognerà alzare le case, lasciare incolti li terreni per qualche anno, acciò questi, bonificati che siano, riposino, licenziare le famiglie [dei coloni] e fare tutto altro che sembra specie di desolazione. Sono pronto a farlo purché con l’aiuto Divino si arrivi una volta ad alzare li terreni a segno, che non si abbia più ad attendere, come fanno gl’Ebrei il Messia, il taglio di Reno in Po, che sempre si discorrerà a mai si fa; e finalmente stare in continuo spavento per ogni poco d’acqua che si accresca in Reno o nella Valle, il che per verità può chiamarsi una perpetua agonia. … Sicché venga ciò che si vuole … che io sono risoluto di tentarne la sorte.
Monsignore affrontò la coalizione degli oppositori a suo modo (larvati ricatti, generosità apparenti, sentenze di amici) e finì per ottenere la sospirata approvazione. Nel 1723, iniziando con una grande platea di agocchie confitte nell’alveo del Reno (una piattaforma di tronchi, la si vede al numero 2, nel prospetto della Chiavica da monte, davanti alle due porte), l’Aldovrandi fece costruire la sua chiavica, là ove oggi si trova la cascina omonima, tra S. Carlo e Mirabello. Subito dopo edificò un mulino per granaglie, a fianco del Palazzo Ruini, là dove oggi si trova la cascina Molino. Ne vediamo la pianta al numero 5.
L’Aldrovandi perseguì l’autosufficienza della sua Impresa. Produsse i laterizi necessari alle costruzioni nella fornace già dei Ruini e a essa ne aggiunse altre due. Per il legname ricorse ai boschi della Tenuta, che vennero inesorabilmente abbattuti, ma quando si rese conto che la qualità del loro legno era troppo scadente, non esitò ad acquistare pregiati pini nel Ravennate. Le spese superarono i preventivi, sarebbero state necessarie rinunce, ma mentre i lavori ancora fervevano, Pompeo già pensava a nuovi impieghi per i suoi mulini. Valutò la possibilità di utilizzali per la produzione di polvere da sparo; per muovere gualchiere per la follatura dei tessuti di lana. Vagheggiò persino la possibilità di utilizzarli per forgiare chiodi con il ferro dell’Elba, che avrebbe trasportato per via d’acqua, circumnavigando l’Italia sino alla foce del Po di Primaro e risalendo poi quest’ultimo e le valli sino al Riolo (abbiamo incontrato la mappa di quest’ultimo tratto fluviale al numero 8 del Pannello 7). L’analisi dei costi e il timore del pedaggio che i Lambertini avrebbero potuto imporgli per l’attraversamento della valle del Poggio lo indussero però ad abbandonare l’idea. Si consolò assicurando ai suoi mulini, grazie all’appoggio di amici altolocati, un bacino di utenza che si estendeva sino a Porotto e San Martino, nonostante ciò fosse vietato dalle norme allora vigenti sul dazio. Il Cardinal Ruffo, legato di Ferrara, emananò una esenzione ad personam, espressamente per lui e i suoi mulini; tanto ad personam che lui e i suoi mulini sono esplicitamente citati nel testo. Non ci credete? vi sembra impossibile? leggete la notifica al numero 8.
Grazie alle stesse amicizie sin dal 1724 si era garantito l’esclusiva del pascolo e della caccia sui suoi terreni, sotto pena di tre tratti di corda per i trasgressori.
Leggiamo al numero 9 l’ Editto del Cardinale Ruffo, Vescovo di Ferrara e del Contado di Bologna
…dopo la pubblicazione del presente Editto, lo qual letto … una sola volta alla Chiesa … mentre il Popolo vi sarà radunato per udire i Divini Uficj si avrà per legittimamente notificato ed intimato a ciascuno, nessuno debba sotto qualsivoglia pretesto … entrare, nè poner piede nelli terreni e Beni … spettanti a Monsignor Arcivescovo Pompeo Aldrovandi nella … Cura di Mirabello … , nè danneggiare li scoli, … nè taliar canne … nè asportare o rubare legne, .. nè meno mandarvi bestie di alcuna sorta a pascolare, … nè meno andarvi a caccia in alcun tempo con cani, animali, reti o archibugi … nè pescare nelle valli, fossi, … senza esplicita licenza in scriptis di detto Monsignor Aldrovandi, … sotto pena a ciascuna persona ogni volta di tre tratti di corda, se saranno uomini, e di scudi dieci se saranno donne o putti e di tre scudi per capo di bestia grossa ….; comandando inoltre a Massari, …. ed ogni persona, … che vedrà in qualsivoglia modo [qualcuno] cacciare, pescare, …, che debbono fare ogni opera per condurli … nelle mani della Corte; proibendo a qualunque Ufiziale, Esecutore …. rilassare [rilasciare] dette bestie senza ordine nostro o del suddetto Monsignore sotto pena di nullità … ed altre pene, etiam corporali, ad arbitrio nostro ….
Dato in Bologna dal Palazzo della Nostra solita Residenza questo dì 13 Novembre 1724.
Dal punto di vista linguistico l’editto costituisce un vero record: un unica frase di 702 parole, con 155 virgole.
Dal punto di vista storico: ci rivela il lungo scontro sociale che si produsse con il formarsi della grande proprietà fondiaria a danno delle comunità rurali. Per queste ultime i boschi, le brughiere, le paludi erano considerate proprietà comuni, come sono ancor oggi per noi i fiumi e il mare. Ma la grande proprietà pretendeva che i terreni che aveva acquisito fossero a esclusivo suo uso. Questa tesi alla fine prevalse, ma non ovunque: nelle aree più depresse (tanto dal punto di vista altimetrico che economico) alcune agguerrite comunità riuscirono a mantenere i loro diritti: nacquero così le Partecipanze, alcune delle quali ancor oggi testimoniano l’antica solidarietà rurale in zone non lontane da Mirabello (Cento, Pieve di Cento e Casumaro).
Quando nell’editto si parla di notificato ed intimato al Popolo … radunato per udire i Divini Uficj, non lo si diceva tanto per dire. Lo si face. Lo comprova la ricevuta riprodotta in piccolo a lato dell’editto: dodici anni dopo la prima pubblicazione l’editto è notificato ancora una volta nelle chiese di Mirabello e Sant’Agostino. Infatti, dopo la rotta Bisacca, qualcuno aveva usato le pozze nell’alveo abbandonato di Reno per macerare la sua canapa. Pur essendo le acque e l’alveo pubblici il Cardinale non l’ammette e per contrastare quello che lui ritiene essere un grave supruso, fa ribandire l’editto in Chiesa. La prova della notificazione, con tanto di testimoni citati, scritta al verso di una copia dell’Editto dal Nunzio di Sant’Agostino, venne trasmessa al Notaio e da questi all’Aldrovandi, che la conservò nel suo archivio, dove l’abbiamo ritrovata.
Alle vostre spalle si trova una macina in pietra. Fu rinvenuta negli anni ‘50, durante lo scavo della vasca dei liquami della stalla della cascina Molino. Il luogo stesso del suo ritrovamento certifica che è una delle macine del Molino. Non è però una macina da grano, poichè è rigata sullo spessore, anzichè sulla faccia, come è tipico delle macine da frantoio per olive o per inerti. Scartate le olive, che non si coltivavano a Mirabello, rimane solo l’ipotesi che fosse una macina destinata alla lavorazione del minerale di ferro che doveva raggiungere Mirabello dall’Elba. La scarsa usura potrebbe confermare l’ipotesi.