1- Dagli acquitrini palustri alle mutazioni del Reno (Pannello 1)

La Contessa Matilde e i Monaci di Nonantola (sec. XI – XII) estesero la loro autorità amministrativa fino all’Alto Ferrarese, con una azione che, per quei tempi, potremmo definire illuminata; con la politica delle ‘partecipanze’ risvegliarono nei pochi residenti l’interesse per la loro terra, li stimolarono a un’attività di bonifica, guidandoli con un certo successo nel tentativo di riscatto di quei terreni palustri ad un’economia agricola produttiva. Ma all’uscita dal medioevo, l’intero paese tornò dominio delle acque dilaganti, che ne condizionarono la vita, impedendone lo sviluppo proprio in un’epoca in cui le terre circostanti si avviavano a quel meraviglioso rinascimento della nostra civiltà.

Negli anni tra il due e il trecento la zona compresa all’incirca, fra Cento, Bondeno, Ferrara e il Poggio doveva presentarsi come uno sconfinato acquitrino, pressoché ininterrotto, dal quale, su modesti rialzi del terreno che permettevano comunque solo stentate condizioni di vita, sorgevano qua e là castelli e ‘ville’.

L’ambiente era condizionato e caratterizzato da acque ora stagnanti e paludose, ora limacciose e impetuosamente dilaganti, nel succedersi dei momenti di secca e di escrescenza dei fiumi e dei torrenti. Questi scendevano dall’Appennino nei ristretti alvei sul fondo delle valli e, giunti in pianura, dilagavano, non più guidati e contenuti se non da modesti solchi del terreno e da arginature inadeguate, spesso trascurate dall’uomo. In tali condizioni il maggiore di questi corsi di acqua, il Reno, trasportato dal suo impeto torrentizio, si spingeva nella pianura, seguendo liberamente la pendenza del terreno, frequentemente modificata dai suoi stessi depositi alluvionali.

Prima del 1500, benché S. Agostino sia sempre ricordato come S. Agostino di Reno, il fiume non è mai citato come confine di proprietà, in quegli atti notarili, molteplici e scrupolosi, che pure citano canali e scoli minori come punti fondamentali di riferimento. La toponomastica locale, varie citazioni di storici e geografi, la mancanza di qualsiasi altro vestigio della presenza del fiume a valle di S. Agostino, ci inducono ad affermare che il corso d’acqua, sufficientemente regolare e controllato (il che non esclude molteplici e talora disastrose rotte) fino un poco a nord di Cento si indirizzasse poi verso il finalese, seguendo vari solchi, capaci di contenere però solo parte delle sue acque (nei periodi di magra), per andare poi a congiungersi, non lontano da Bondeno, col Panaro. Uniti i due fiumi proseguivano sino a confluire nel Po di Ferrara, poco a valle di Ficarolo.

Durante le piene le acque dilagavano verso nord-est, invadendo gradualmente ma irregolarmente, con i depositi alluvionali le terre del Contado di S. Agostino di Sopra (l’odierna S. Agostino) e di Sotto (oggi Mirabello).

Le condizioni di vita erano proibitive: paludi, canneti, viabilità impossibile, miasmi, malaria, nessuna concreta risorsa economica. Ma questa terra inospitale si trovava compresa tra le Legazioni pontificie di Bologna e Ravenna, i ducati di Modena e di Ferrara, la Repubblica di Venezia e il mare. Costituiva perciò per i loro governi, ambiziosi ed egemonici, un bene irrinunciabile, anche perché era la via più diretta per i traffici, che in quei tempi potevano avvenire solo per via d’acqua. L’importanza strategica ed economica del territorio, chiaramente avvertita, e l’esigenza di controllare le acque, spinsero gli interessati a dar inizio a opere di canalizzazione, prima nelle stesse valli (via di navigazione Bologna-Ferrara, con perno di smistamento nel porticciolo di Malalbergo), poi incanalando il Reno (1526), sia pure fra malsicuri argini pensili pressoché rettilinei, da S. Agostino a Mirabello e oltre sino al Po, nei pressi della Salvatonica, non lontano dal Palantone.

Per quanto lungamente studiata, tale soluzione non risolse secolari problemi proposti dal Fiume. Il Reno, il cui corso perdurava spesso impetuoso anche nella pianura, con le sue piene ruppe ripetutamente quei fragili argini (costruiti solo col materiale disponibile sul luogo: tronchi, fascine e terra) e depositò sulle terre inondate le proprie torbide, iniziando un parziale frammentario innalzamento del fondo delle antiche valli, modificando gradualmente la fisionomia e l’ecologia dell’ambiente. Le valli furono respinte verso est, lasciando piccoli bacini, ristretti fra terre paludose o poco affioranti, malsane, ma ormai capaci di un primo popolamento. Si venne così formando una pianura che alternava piccoli, spesso piccolissimi, spiazzi permanentemente asciutti e idonei alla cultura; zone boschive di querce, olmi, pioppi, moreti e altri alberi palustri; ampie chiazze semi-paludose, ora sommerse ora asciutte, segnate da sterpeti, canneti e prati, segadizzi o pascolivi, e valli vere e proprie, ancora profonde, nelle quali era però possibile la caccia e la pesca; il tutto in piccoli spazi che si prestavano a costituire proprietà limitate misere e composite, adatte per una, anche numerosa, famiglia contadina, quando qualcuno osasse e decidesse di spingersi su queste terre, non più per fuggire e nascondersi, ma per tentarne lo sfruttamento con l’intento di stanziarvisi definitivamente. Ma l’inserimento del Reno in Po provocò il guaio maggiore proprio là dove cercava sfogo.

Il Po di Ferrara aveva modesta portata d’acqua e pendenza poco meno che trascurabile. Il Reno trasportò fino alla sua confluenza i materiali dai quali era intorbidito e questi si andarono depositando là dove le sue acque perdevano impeto, cioè al suo sbocco nel Po, formando un interrimento che costrinse la corrente del Po a risalire verso la Stellata e Bondeno, con le conseguenze che si possono immaginare.

Cominciò allora una lunga, pedantesca e inconcludente controversia tra le autorità del Ducato di Ferrara e quello della Legazione di Bologna. E’ in questo periodo (sec. XVII) che si moltiplicano gli studi d’idraulica e sempre più numerose appaiono le relative carte topografiche, tracciate dagli esperti per ricercare come risolvere nel migliore dei modi il difficile problema. Le parti non riescono però ad accordarsi, perché contrastanti sono gli interessi, ma anche, come si deduce facilmente dai documenti, per cattiva volontà, reciproci sospetti e scarsa chiarezza di idee sulle possibili conseguenze delle eventuali scelte.

Nel 1604, con un compromesso che avrebbe dovuto essere provvisorio (e non lo fu) Ferrara ottenne che le acque del Reno fossero dirottate dal Po, poco a Nord di Mirabello, e immesse nella Sanmartina. Sotto il controllo dell’Assunteria delle acque di Bologna, ma in un continuo conflitto di competenze, tale sistemazione rimase sostanzialmente invariata fino a quando, poco prima della metà del sec. XVIII, non si riuscì più a far fronte a tre ampie rotte successive (Bisacca del 1731, che dirottò il Reno a monte di Mirabello, Annegati del 1735 e Panfilia del 1752). Abbandonato quasi totalmente a se stesso, il fiume, per forza propria o immettendosi in canali precedentemente tracciati dall’uomo e ora raccordati tra loro, indirizzò il proprio corso verso est, sempre più a sud, fino a raggiungere l’alveo abbandonato del Po di Primaro e trovare finalmente tregua nel suo letto attuale.

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